Nel contesto lavorativo, il rispetto della persona è un principio che non ammette deroghe. A ribadirlo è la Cassazione Civile, sezione Lavoro, che con l’ordinanza n. 6345 del 10 marzo 2025, ha confermato la legittimità del licenziamento per molestie sul lavoro nei confronti di un dipendente autore di frasi disonorevoli e imbarazzanti verso una collega. Secondo i giudici, ogni comportamento deve essere valutato all’interno del luogo di lavoro, dove vige un dovere inderogabile di rispetto della dignità altrui – in particolare, della sfera personale e dell’orientamento sessuale di ciascuno. Un principio che non è solo etico, ma giuridico.
Le molestie come forma di discriminazione
Nella decisione, la Corte ha chiarito che le molestie sono una forma di discriminazione ai sensi del nostro ordinamento. In particolare, lo sono quei comportamenti indesiderati, connessi al sesso o all’orientamento sessuale, che violano la dignità della persona e generano un clima umiliante, degradante o offensivo. E non serve il contatto fisico: anche approcci verbali indesiderati, reiterati e imbarazzanti, se percepiti come lesivi dalla vittima e agiti alla presenza di terzi, possono costituire motivo di licenziamento per giusta causa (in questo caso licenziamento per molestie). Come nel caso affrontato dalla Cassazione, dove la collega aveva reagito con disagio evidente, “diventando rossa in viso”. La percezione soggettiva della vittima è centrale. Non conta se l’autore della condotta riteneva di “scherzare” o “non offendere”: ciò che rileva è l’effetto prodotto.
Una riflessione più ampia: quando i ruoli si invertono
A questo proposito, vale la pena aprire una parentesi. Chi ha letto il romanzo Rivelazioni di Michael Crichton – o ha visto l’omonimo film, diretto da Barry Levinson, con Michael Douglas e Demi Moore – ricorderà una trama provocatoria: un dirigente maschio è vittima di molestie sul lavoro da parte della sua superiore, in un contesto aziendale dove il potere e la reputazione giocano un ruolo cruciale. Al di là della finzione narrativa, quella storia – che sollevò non poche polemiche all’epoca – pone una questione reale e attuale: la molestia è una questione di condotta e squilibrio di potere, non di genere. Il diritto, quando ben applicato, tutela la vittima, chiunque essa sia, e condanna comportamenti che ledono la dignità individuale, senza stereotipi o generalizzazioni. Non si tratta, quindi, solo di proteggere “una parte” contro “l’altra”, ma di garantire un ambiente di lavoro in cui ogni persona possa sentirsi libera, rispettata e al sicuro. Il caso di Crichton, paradossalmente, rafforza questa idea, ricordandoci quanto la cultura aziendale debba essere costruita su responsabilità condivise e strumenti di prevenzione solidi.
Molestie sul lavoro: i doveri del datore di lavoro secondo l’art. 2087 c.c.
La sentenza è anche un richiamo preciso ai datori di lavoro, chiamati a prevenire e contrastare con determinazione ogni forma di molestia. In caso di inazione, la responsabilità ricade anche su di loro, ai sensi dell’art. 2087 del Codice Civile. Tra gli strumenti più efficaci, oltre a politiche aziendali coerenti e trasparenti, è sempre più importante l’introduzione della Consigliera di Fiducia, figura professionale autonoma e competente incaricata di ascoltare, prevenire, formare e intervenire nelle situazioni di disagio e discriminazione.
Se sei vittima di molestie sul lavoro o se in azienda vuoi introdurre strumenti efficaci per prevenire e tutelare, puoi scrivermi in riservatezza su: franco@cclegal.it.
Avv. Giorgia Franco